Alcune premesse Nell'antica cultura occidentale ed orientale il mistico era colui che, tramite un processo d'iniziazione, raggiungeva una condizione diversa, spesso superiore, rispetto ai comuni mortali. Questa era una caratteristica, in particolare, delle forme mistico-magiche dei culti a sfondo sciamanico più arcaici (lo sciamano era di fatto l'unico tramite e punto di congiunzione tra due realtà separate come il mondo naturale dei mortali e il mondo soprannaturale degli "spiriti") e delle tradizioni religiose di carattere animistico. Per quel che riguarda le grandi religioni del Libro (ebraica, cristiana e musulmana), esse hanno sempre storicamente rappresentato l'espressione dell'assoluta alterità di Dio e, in quanto tali, sono state profondamente pervase da un rigido atteggiamentoo fideistico e dogmatico (considerato, in ambito mistico, illusorio e superstizioso). Non deve stupire, quindi, che esse abbiano costantemente manifestato una radicale avversione ed ostilità al misticismo. Ci sono stati, infatti, grandi e significativi mistici ebraici, musulmani e cristiani, che, però, sono quasi sempre entrati in conflitto con l'autorità religiosa, proprio perchè, facendo esperienza di unità, dovevano naturalmente collocarsi su posizioni culturali e spirituali eterodosse rispetto alla Chiesa ufficiale. Non bisogna, quindi, meravigliarsi se tale autorità condannava i mistici come bestemmiatori od eretici. Con tale comportamento ribadiva la sua assoluta convinzione della radicale frattura tra Dio e uomo, creatore e creatura, per cui solo l'atteggiamento di sottomissione era possibile da parte dell'uomo ed era considerato blasfemo ogni suo rapporto diretto con il Divino. Occorre inoltre sottolineare che nelle tradizioni di queste tre grandi religioni l'esperienza mistica non appare quasi mai come pienamente consapevole, in quanto non viene mai negata in modo assoluto
l'alterità di Dio rispetto alla creazione. Bisognerebbe cercare di capire fino a che punto questo tipo di posizione sia effettivamente autentico: potrebbe trattarsi di un atteggiamento di "copertura" o di prudente compromesso volutamente adottato per non incorrere nelle persecuzioni dell'ortodossia religiosa. In ogni caso si tratta, sul piano
fattuale, di esperienze di carattere mistico vissute in modo pieno e completo, come pura e totale comunione con il Divino. La Via dell'Ovest Mistica cristiana Fondamentali elementi mistici li ritroviamo già nella tradizione evangelica. L'affermazione di Gesù di essere una sola cosa con il Padre (Gv 10,30) e la concezione che Dio è spirito (Gv 4,23-24) nega ogni forma di antropomorfismo e rappresentazione esteriore di Dio, ribadendo che il Divino va cercato nel cuore dell'uomo. La sua proclamazione che il compimento del tempo e del Regno di Dio è qui e ora (Lc 17,21) conferma l'assolutezza del presente e la presenza immanente di Dio nella creazione. Chiunque, quindi, è disposto a percorrere il cammino di virtù descritto nel Vangelo, saziandolo fino al compimento, prova gli stessi sentimenti e pensieri di Cristo, ovvero ne ripete l'esperienza spirituale di unità. In tale condizione, di fatto, viene "negato" il Cristianesimo come pura credenza fideistica ed esperienza spirituale esteriore. Di conseguenza il mistico si identifica con il "vero" cristiano che, seguendo l'esempio di Cristo, si pone dentro il centro spirituale più profondo del messaggio evangelico. Dall'età classica in poi l'iniziazione mistica venne progressivamente caratterizzandosi come impegno ascetico e speculativo o prassi di vita (Francesco d'Assisi abbandonò tutto e si mise al servizio dei poveri e dei malati). Ad uno sconosciuto autore greco cristiano del VI secolo d.C. risale la Teologia mistica, un testo, attribuito a Dionigi Aeropagita, che fece penetrare la pratica mistica nella storia del Cristianesimo. La mappa del misticismo cristiano medievale si presenta, tuttavia, estremamente variegata. Esso infatti, arazionale per definizione, in quanto basato sull'idea che di Dio si può svere solo un' esperienza ineffabile, era caratterizzato spesso da impostazioni teologiche e pratiche spirituali particolari. Si fondava comunque, in genere, su una comune base filosofica, rappresentata dal Neoplatonismo nelle sue varie espressioni. Il Neoplatonismo era un Movimento filosofico sviluppatosi in Grecia tra il III e il VI sec. d.C. Esso si presentava come una ripresa e una rielaborazione di un certo complesso di dottrine platoniche, inserite e fuse in una prospettiva sistematica, sensibile alle esigenze sincretistiche del tempo. Per questo accolse elementi di varie correnti filosofiche greche e a subì l'influsso di correnti mistiche e gnostiche del pensiero orientale. Tradizionalmente il neoplatonismo viene suddiviso in tre correnti, orientate, rispettivamente, verso in la metafisica, la religione e l'erudizione. Alla prima corrente appartenevano i fondatori e principali suoi esponenti, come Ammonio Sacca, C. Longino e soprattutto Plotino (205-270 d.C.) e il suo allievo Porfirio. Da loro discese la Scuola di Siria (Giamblico) alla quale fu affine la Scuola di Atene (Proclo). Alla seconda corrente apparteneva la Scuola di Pergamo (Giuliano l'Apostata). Alla terza corrente, rappresentata. principalmente dalla Scuola di Alessandria,. appartennero numerosi eruditi, come, ad esempio, i Padri alessandrini Clemente ed Origene. Molti di essi si dedicarono anche a studi matematici e naturalistici. I capisaldi del neoplatonismo erano i seguenti: la verità è rivelata e di natura religiosa e si manifesta all'uomo nella sua riflessione su se stesso. Dio è il bene ed è di per sé ineffabile. Tutte le cose derivano da Dio per emanazione e sono sempre meno perfette via via che da lui si allontanano (posizione molto simile alla concezione degli "eoni" di matrice gnostica). L'uomo può ritrovare Dio interiorizzandosi fino all'unione mistica con lui.Sotto l'aspetto filosofico per i neoplatonici principio dell'universo era l'Uno, perfetto e comprensivo di tutto ciò che esiste. L'Uno, aspirando a un universo pieno di forme, emanava l'Essere. L'Essere a sua volta emanava il Nous, la mente, contenente tutte le idee e le forme, i modelli sui quali l'universo sarà costruito. Il nous produceva la psyche, l'anima del mondo. La psyche, infine, emanava l'universo fisico imprimendo idee e forme sulla materia prima. L'influsso del neoplatonismo sull'elaborazione mistica cristiana dei secoli successivi fu fondamentale. Dionigi, che scriveva verso il 500 d.C., distingueva fra teologia positiva e teologia negativa e poneva l'accento sulla via negativa a Dio attraverso la contemplazione e la preghiera, anziché sulla via positiva della ragione. La via negativa unisce l'idea della somiglianza e dell'intensa vicinanza fra l'uomo e Dio con l'idea dell'inconoscibilità intellettuale di Dio. Noi non possiamo sapere nulla di Dio mediante la ragione, perché Dio è completamente al di là di qualsiasi cosa noi possiamo capire di lui. Dio è in sé più grande della ragione e non limitato da alcuna categoria razionale. Se pure noi potessimo mai avere di lui un barlume di conoscenza, dovremmo comprendere Dio con una conoscenza che sorpassi la ragione, una conoscenza data da Dio e che ci trascini con un desiderio irresistibile verso ciò che è fonte di tutto. Dionigi non respingeva del tutto la ragione: benchè infatti l'essenza divina sia sempre nascosta, le "energie" di Dio, le sue manifestazioni, ovvero la sua "estensione" nell'universo, possono essere conosciute. Dio lo si può vedere nelle cose di questo mondo, per quanto queste ne diano un'immagine deformata. Dio in sé, l'essenza di Dio, produce le sue azioni o manifestazioni, che sono l'universo. Le cose non sono esterne a Dio. Non vi è nulla se non Dio, null'altro che Dio dal quale le cose possono venire; Dio produce l'universo dal suo proprio essere. Dio è ciò che è. Ogni cosa che è viene da lui e ogni cosa anela tornare a lui. Il suo sistema è essenzialmente monistico, non essendovi alcuno spazio per qualcosa che non sia Dio. Il male è solo mancanza di bene; non ha una sostanza ma solo un'ombra di essere. Tutte le cose sono Dio, ma il male non è Dio, poiché il male non è una cosa bensì solo privazione di essere, privazione di divinità. Eriugena, come Dionigi, era un panenteista : l'universo è Dio, ma Dio trascende l'universo. Tutte le cose sono in Dio e tutte le cose sono Dio, ma Dio è al di là di tutte le cose. Ogni creatura che esiste, esiste perché Dio la pensa e agisce in essa; la esistenza creaturale giace in Dio. Se potessimo penetrare al livello più profondo di una creatura, troveremmo che tale profondissimo livello è Dio. Non si dovrebbe intendere Dio e la creatura come due cose lontane l'una dall'altra, ma come un'unica e medesima cosa. Dio è al di sopra e al di sotto e dentro e fuori di tutte le cose; egli è l'inizio, il medium e la fine: "Ogni creatura vive in Dio, e Dio si crea in ogni creatura in modo mirabile e ineffabile. Irraggiungibile, si offre a noi, invisibile, si manifesta, impensabile, entra nella nostra mente, nascosto, si apre a noi, sconosciuto, si fa conoscere, nome inesprimibile, esprime la Parola in cui sono tutte le cose Infinito e finito, complesso e semplice, egli è natura al di sopra della natura, essere al di sopra dell'essere. Fattore di tutto, si fa in tutto, immobile, entra nel mondo, senza tempo, nel tempo, illimitato, nello spazio limitato, ed egli che non è cosa alcuna diviene ogni cosa". La rinascita del misticismo cristiano del
XIV, XV e XVI secolo trasse forza dall'ascesa del Nominalismo. Nominalismo e misticismo condividevano l'assunto secondo il quale Dio lo si poteva raggiungere con l'esperienza, l'intuizione e l'amore, più che attraverso la ragione. L'intuizione mistica sostiene che ogni cosa vive, si muove e ha il suo essere in Dio: "egli ha solo Dio e pensa solo Dio, e ogni cosa per lui non è altro che Dio. Egli scopre Dio in ogni azione e in ogni luogo. L'intera impresa della sua persona equivale a Dio". Per Meister Eckhart (1260-1327
d.C.) solo Dio è essere assoluto; le creature hanno essere solo in quanto esistono in Dio, altrimenti sono "puro nulla". Anche Giuliana di Norwich, contemplativa del XIV secolo, riteneva che la bontà di Dio trascende la nostra capacità di comprendere il bene e il male. Dio include in se stesso quel che noi chiamiamo male, ma è Dio stesso che sopporta il medesimo male che chiede a noi di sopportare. La prospettiva mistica di fondo era unitaria: tutte le cose, inclusi i peccatori, sono uniti a Dio. Per i mistici medievali il Male è un vacuum morale che trascina l'uomo fuori dalla realtà. Mistica islamica Notevoli furono anche gli influssi e gli intrecci del Neoplatonismo con il misticismo islamico, la cui base filosofica fu la stessa. Nel mondo islamico, infatti, si crearono forme di misticismo che sviluppavano il rapporto profondo tra l'io e il Divino, seguendo modelli ellenistici, cristiani, persiani ed indiani (Sufismo). Nel V secolo d.C. il monachesimo e l'ascetismo di matrice cristiana erano fortemente radicati sia in Egitto che nei paesi di lingua siriaca. Ed è proprio all'interno di questi movimenti eterodossi che si individuano delle impressionanti analogie con le pricipali correnti di pensiero del misticismo islamico, in particolare quello sufi. Tra questi i più influenti furono senza dubbio il Messalianesimo e l'Origenismo. Uno dei fenomeni che caratterizzavano la mistica di tali movimenti era la presenza di asceti che, con il loro comportamento esteriore, facevano di tutto per attirare su di sè il biasimo dei loro simili. Essi agivano in modo da essere considerati i peggiori tra gli uomini: il loro cuore era puro, in quanto avevano abbandonato tutto per Dio, anche la reputazione. E' l'idea della shituta ("disprezzo", "biasimo"): il santo perfetto, oltre a condurre una vita che impedisca agli altri di indovinare il suo stato, deve farsi insultare, passare per folle, considerarsi come il peggiore degli uomini. Questo sarà il fondamento del misticismo islamico, la concezione, allo stato embrionale, della rappresentazione sufi di una gerarchia invisibile di Amici di Dio che passano la loro vita ignorati da tutti, ma senza i quali il mondo non potrebbe sussistere. Il nome siriaco di "messaliani" (corrispondente a quello greco di euchiti), dato agli adepti della setta, si basava sulla pratica che più sembrava caratterizzarli: la preghiera perpetua, che permetteva di cacciare dal cuore dell'uomo il demonio che lo abitava in seguito al peccato originale. Questo movimento ascetico si diffuse, tra il quarto e il nono secolo, in tutto il Medio Oriente, ma soprattutto in Siria e Mesopotamia. Dei messaliani ci restano solo due documenti: le Omelie dello pseudo-Macario (Simeone di Mesopotamia) e il Libro dei gradi (K'taba d'-masqata). Quest'ultimo testo distingueva gli adepti in due categorie: i giusti e i perfetti. I primi dovevano perdonare i loro nemici, offrire elemosine, avere una sola moglie, evitare il contatto con i malvagi, osservare certe prescrizioni alimentari. I secondi conducevano una vita puramente spirituale: amavano tutti, amici e nemici, ed erano "tutto insieme a tutti". Non possedevano nulla, mangiavano qualsiasi cosa e osservavano una rigorosa castità. Alla base di questa distinzione vi era una precisa concezione metafisica: Dio ha creato due mondi, il mondo visibile e il mondo invisibile; il primo non è altro che l'immagine del secondo (concetto di chiara derivazione neoplatonica). I messaliani pretendevano di vedere Dio con i loro occhi: quando lo Spirito si insediava nell'anima del "perfetto", egli vedeva Dio nel suo cuore come in uno specchio. Per giungere a questo stato mistico occorreva prepararsi con la preghiera, il digiuno, le pratiche ascetiche. La separazione tra le due classi, stabilita dal "Libro dei gradi", trova riscontro anche nel misticismo islamico. In esso la classe dei "perfetti" si distingue per la sua "shituta": solo coloro che accettano il biasimo sono perfetti Amici di Dio. Pratiche ascetiche simili a quelle dei "perfetti" esistono anche tra i sufi: ne è esempio il dhikr, "ricordo" o "menzione" di Dio, l'instancabile ripetizione di uno dei nomi di Dio. Un altro punto comune tra messaliani e sufi è la danza. Sembra che una forma di danza sacra fosse in uso tra gli adepti siriaci, designati per questo anche con il nome di Choreutai. Nella tradizione sufi la danza sacra, che prende il nome di sama, è praticata dai dervisci, nelle forme classiche dei mawlawiyya (Mevlevi o "Dervisci danzanti") della Turchia e degli 'isawiyya ("Aissaua") del Marocco. L'esegesi ("interpretazione") mistica delle scritture, molto diffusa nell'Islam, venne ampiamente praticata dai neoplatonici cristiani di Alessandria, Clemente e Origene. Tale metodo, sorretto da una profonda filosofia mistica, si diffuse all'interno del monachesimo cristiano d'Egitto e in tutto il Medio Oriente. Nell'Islam fu adottato da diverse correnti sciite (Ismailiti) e dai Sufi. Questi ultimi cercheranno di fondare la loro spiritualità su un'esegesi mistica dei versetti coranici, riferendoli agli eventi interiori dell'anima. Per i monaci cristiani egiziani il fine dell'ascesi era la gnosi, la "conoscenza" superiore e intuitiva che conduceva all'unione con Dio. A tale "gnosi" si può ricondurre il concetto sufi di ma'rifa, anch'essa esito di un'ascesi rigorosa. Ascesi e visioni, mistica intellettualistica e gnosi, annullamento dell'uomo nell'Uno indifferenziato al termine dell'ascensione sono concetti che hanno un ruolo essenziale nella dottrina dell'origenista Evagrio Pontico, che esercitò un grande influsso sugli sviluppi dottrinali del misticismo islamico. Nel primo secolo dell'Islam Origenismo e Messalianesimo si congiunsero nella grande fioritura della mistica nestoriana, che strinse rapporti solidi con quella musulmana: i due movimenti, infatti, vissero a lungo in simbiosi (il Nestorianesimo, principale eresia cristiana del V sec. d.C., ebbe infatti un'ampia diffusione nel vicino e lontano Oriente, fino agli estremi confini dellAsia). Il mistico islamico non aspira altro che ricongiungersi a Dio. Nella spiritualità sufi l'estasi mistica diventa la rievocazione e la riattualizzazione dell'evento denominato Patto Primordiale. Emerso dal sonno in cui l'aveva sprofondato la sua condizione terrena, il derviscio ricorda le sue vere origini. L'azione della musica, quale si manifesta nelle sedute di "sama", è spiegata come il ricordo di quell'evento. Ogni voce si suppone riproduca il richiamo e susciti nell'anima le stesse risonanze. Il derviscio entra in estasi mosso dal desiderio di ritrovare la sua condizione originaria, di contemplare la bellezza divina. Questo richiamo lo induce naturalmente a muoversi e a danzare. Il "sama" permette di rappresentare uno stato anteriore al tempo, nel quale si rievoca la parola creatrice kun (" Sii ! "), grazie alla quale tutte le cose giunsero all'esistenza. Una delle costanti dell'esperienza mistica dell'Islam è il sentimento che nulla ha esistenza reale al di fuori di Dio. Lo stato perfetto dello spirito umano è quello primitivo, che esso possedeva il giorno del Patto, quando non era che un'idea in Dio e non aveva esistenza propria. Separato dall'Unità divina egli diviene presente al mondo; separato dal mondo egli è presente a Dio, oscillando così fra lo stato del suo assorbimento in Dio (fana) e quello della sua persistenza tramite Dio (baqa). L'oscillazione tra i due stati spiega l'unione mistica. Il mistico è cosciente di questa situazione e pur ritrovando la sua individualità, vive nell'intimità con Dio. Di volta in volta egli si trova nello stato di fana e in quello di baqa, ed è il ritmo di questa alternanza che definisce il grado da lui raggiunto. Gli spiriti umani, quindi, hanno un esistenza intermittente o, meglio, il loro modo di esistenza muta: ora esistono in Lui, ora sono separati da Lui. In entrambi i casi essi provengono da Lui e, in questo processo di trasformazione, si spogliano delle loro qualità umane per assumere gli attributi divini. In questo modo essi non hanno più altra esistenza che quella di Dio e partecipano alla sua Unità. L'Uomo Perfetto diventa la manifestazione di Dio, il riflesso dei suoi attributi, che si contemplano in lui come in uno specchio. Dio stesso diventa l'essenza della creazione, l'assoluto da cui essa deriva. Ecco perchè alla base delle dottrine mistiche islamiche rimangono sempre l'esaltazione dell'Assoluto divino, l'amore ardente verso Dio e la contemplazione della sua presenza in tutte le cose. Mistica ebraica Nella tradizione ebraica il mistico è soprattutto colui che si occupa di ciò che è velato e nascosto ed è anche colui che è consapevole che l'apparenza delle cose cela una luce più profonda e più remota. Nell'ambito della tradizione giudaica, il senso della parola "mistica" ritrova quindi la sua originaria ed etimologica connotazione di "dottrina del mistero", mistero occultato nel testo della Torah, le cui pagine restano sempre alla base di qualsiasi speculazione esoterica. La qabbalah, infatti, è soprattutto un'interpretazione esoterica della Scrittura, condotta con i criteri più vari (diverse combinazioni delle lettere), che dà adito ad una "sapienza" segreta, per cui si dovrebbe parlare piuttosto di gnosi. D'altra parte lo Chassidismo, esempio di pratica più propriamente mistica nell'ambito ebraico, resta un po' bloccato proprio da questa sua appartenenza, ovvero dalla perenne barriera della rigorosa alterità e trascendenza di Dio imposte dalla tradizione. Tuttavia non mancano, nel complesso della mistica ebraica, elementi di ricerca di un rapporto spirituale e diretto con il Divino, caratteristico dell'ascetismo cristiano e islamico. Nel misticismo ebraico, conoscere l'uomo e conoscere il creato significa celebrare la gloria del Dio d'Israele, che si dispiega nella creazione e ne pervade ogni minimo aspetto. Ma significa anche arrestarsi davanti al limite dell'inconoscibilità di Dio, del Dio che trascende il mondo e si avvolge nel mistero che precede il tempo e lo spazio. Attraverso il sistema simbolico che la qabbalah gli porge, il mistico può quindi calarsi nella propria interiorità o librarsi nel cielo della creazione. Traendo linfa vitale dall'interno stesso della materia scritturale, la mistica giudaica si arricchisce a dismisura di nuovi significati simbolici, ed è proprio l'armonia dei simboli a permeare la conoscenza e a renderla possibile. Negli scritti mistici si avverte il soffio di un simbolismo visionario, che trascina ogni parola e ogni lettera verso un unico punto di fuga; un simbolismo che rifrange il medesimo messaggio nei diversi livelli dell'essere, e che organizza il reale in una rete di analogie tanto stretta da poter catturare ogni accadimento e ogni grado di esistenza. Il significato stesso del "rito" è riposto nella simpatia che lega terra e cielo, alto e basso. Il valore simbolico della liturgia ebraica occupa uno spazio centrale nella riflessione mistica. L'efficacia dell'atto rituale si esercita tanto verso l'alto (sino a giungere a Dio stesso) quanto verso l'interiorità dell'uomo. Il metodo della conoscenza simbolica è identico sia che l'uomo s'avanzi verso l'alto, verso il cielo esteriore, sia che segua il cammino della propria interiorità: "Mah le-ma'alah ma le-mattah ...": "ciò che è sopra e ciò che è sotto ..." Dal punto di vista storico la nozione di qabbalah, che significa letteralmente "tradizione", si afferma in alcune aree europee a partire dal XII secolo, grazie a esponenti della mistica ebraica disposti a fornire per iscritto una sorta di divulgazione e di sistematizzazione del corpus simbolico accumulato durante secoli di speculazione, e fino allora gelosamente custodito in cerchie elitarie (in particolare nello Zohar, redatto in Castiglia alla fine del 1200 d.C.). Nel Sefer yesirah (Libro della Creazione), testo cabbalistico, compare per la prima volta la menzione di eser sefirot beli-mah, che può essere interpretato come "dieci sefirot senza determinazione". Le 10 sefirot designano gli attributi divini e vengono descritte come lo spirito di Dio, l'aria, l'acqua e il fuoco a cui si aggiungono le sei direzioni: altezza, profondità, oriente, occidente, meridione e settentrione. Esse sono le vie attraverso cui Dio (YHWH) originò il Creato. Le sefirot si strutturano secondo un principio di discesa dall'alto, dal punto piu vicino alla divinità inconoscibile, verso il mondo terreno e inferiore: esse rappresentano i gradi successivi attraverso cui la potenza divina si dispiega nel cosmo. Vengono emanate da Dio una di seguito all'altra unite tra loro da 22 sentieri contrassegnati dalle lettere dell'alfabeto, per formare una figura definita "Albero della qabbalah". Per penetrare l'intima natura della qabbalah è tuttavia indispensabile comprendere che le sefirot non sono una struttura statica e immutabile. Al contrario, esse esprimono il dinamismo interno al cosmo e rappresentano il principio dell'armonia che regge la realtà; costituiscono l'alimento della vita e, al tempo stesso, la causa della distruzione e della morte, ed esprimono l'eterno dissidio e la reciproca attrazione dei contrari. Le sefirot danno origine all'incessante mutamento che trasforma ogni essere e ogni apparenza, e proprio in virtù di questa loro natura possono guidare il mistico verso il mistero della conoscenza. Non bisogna dimenticare che le sefirot rappresentano per analogia anche i gradi di un cammino di ricerca di Dio, e che esse sono le porte che debbono essere varcate per avere accesso al "livello della sapienza suprema". Questo cammino può essere percorso attraverso la concentrazione e l'intensita' dei gesti rituali, attraverso la meditazione sulle lettere dell'alfabeto, e mediante la preghiera. Intorno al 1300 d.C. si sviluppò tra gli ebrei tedeschi il cosiddetto chassidismo, forma mistica tendente ad esaltare alcune pratiche di devozione in vista di un'unione mistica con Dio. I maggiori esponenti furono Judah ben Samuel ed Eleazar di Worms. Ma il misticismo dei Chassidim si esaurì rapidamente, sopraffatto dalle persecuzioni antiebraiche scoppiate verso il 1330. Alla fine del 1700 si diffuse, invece, tra gli ebrei dell'Europa centrale ed orientale, una forma più tradizionalista e pietista di Chassidismo che, sebbene non avesse nulla a che fare con i chassidim medievali, ne riprese gli aspetti più nobili. I suoi capisaldi principali erano la carità verso il prossimo, espressa anche per mezzo di poteri e pratiche magiche, una spiritualità vissuta più intensamente rispetto al formalismo imperante all'epoca e, soprattutto, la ricerca di rinnovamento interiore attraverso mezzi semplici quali la preghiera, i canti e le danze. La figura principale del nuovo Chassidismo fu il suo fondatore, il mistico polacco Israel ben Eliezer, noto come Baal Shem Tov. Storicamente buona parte del misticismo orientale trae le sue origini dall'antica tradizione induista che, sotto certi aspetti, rappresenta la forma di spiritualità più radicalmente ed essenzialmente mistica che esista. Nell'induismo, infatti, fondamentale è il concetto di Dio come spirito ed energia, a cui si unisce lo spirito dell'uomo. Nella dottrina induista solo l'ignoranza fa dire che esista qualcosa che è "altro" dalla realtà, dall'essere che è Dio: nulla può essere fuori da Dio, dunque Dio, Uomo e Creazione non sono entità distinte e, di conseguenza, tutta la vita, compresa quella umana, è sacra. Tipicamente induista è la convinzione mistica che il Maestro sia più importante della dottrina, della Scrittura, che da sola nutre unicamente la superstizione. La caratteristica più importante della concezione del misticismo orientale - si potrebbe quasi dire la sua essenza -è la consapevolezza dell'unità e della mutua interrelazione di tutte le cose e di tutti gli eventi, la constatazione che tutti i fenomeni nel mondo sono manifestazioni di una fondamentale unicità. Tutte le cose sono viste come parti interdipendenti e inseparabili di questo tutto cosmico, come differenti manifestazioni della stessa realtà ultima. Le tradizioni orientali si riferiscono costantemente a questa realtà ultima' indivisibile, che si manilesta in tutte le cose e della quale tutte le cose sono parte. Essa è chiamata Brahman nell' Induismo, Dharmakaya nel Buddhismo, Tao nel Taoismo. Poiché trascende tutti i concetti e tutte le categorie, i Buddhisti la chiamano anche Tathata o Essenza assoluta: Nella vita ordinaria, non siamo consapevoli di questa unità di tutte le cose, ma dividiamo il mondo in oggetti ed eventi separati. Questa divisione è utile e necessaria per muoverci nel nostro ambiente quotidiano, ma non è un aspetto fondamentale della realtà. E un'astrazione e un'illusione ideata dal nostro intelletto che distingue e classifica. Lo scopo principale delle tradizioni mistiche orientali è perciò di rimettere ordine nella mente guarendola e acquietandola attraverso la meditazione. Il termine sanscrito per "meditazione" è samadhi, che significa letteralmente "equilibrio mentale", alludendo allo stato mentale equilibrato e tranquillo nel quale si sperimenta l'unità fondamentale dell'universo. Per gli Indù, Brahman è il filo unificatore della rete cosmica, la base ultima di tutto l'essere. Nella tradizione buddhista il nucleo centrale dell'Avatamsaka-sutra, uno dei più importanti testi del buddhismo Mahayana ("Grande Veicolo"), e la descrizione del mondo come una rete perfetta di mutue relazioni, nella quale tutte le cose e tutti gli eventi interagiscono l'uno con l'altro in un modo infinitamente complesso. La rete cosmica svolge un ruolo di primo piano anche nel buddhismo tantrico o Vajrayana ("Via del Diamante"), un ramo del Mahayana che ha avuto origine in India intorno al terzo secolo d.C. e che attualmente costituisce la scuola più importante del buddhismo tibetano. I testi sacri di questa scuola sono chiamati Tantra, un termine la cui radice sanscrita significa "tessere" e che allude all'intreccio e all'interdipendenza di tutte le cose e di tutti gli eventi. I mistici orientali nella meditazione profonda arrivano ad uno stato in cui cade completamente la distinzione tra osservatore e osservato, dove soggetto e oggetto si fondono in un tutto unico indifferenziato. Questa è quindi la comprensione definitiva dell'unità di tutte le cose. Essa viene raggiunta in uno stato di coscienza nel quale la propria individualità si dissolve in un'unità indifferenziata, dove si trascende il mondo dei sensi . Quando i mistici orientali ci dicono che essi percepiscono tutte le cose e tutti gli eventi come manifestazioni di una fondamentale unicità, ciò non significa che essi asseriscano che tutte le cose sono uguali. Essi riconoscono l'individualità delle cose, ma nello stesso tempo sono consapevoli che tutte le differenze e tutti i contrasti sono relativi all'interno di un'unità che tutto comprende.Gli opposti sono concetti astratti che appartengono al mondo del pensiero e in quanto tali sono relativi. Il mistico trascende questo mondo dei concetti intellettuali, e nel trascenderlo diventa consapevole della relatività e del rapporto polare di tutti gli opposti. Egli si rende conto che buono e cattivo, piacere e dolore, vita e morte, bello e brutto non sono esperienze assolute che appartengono a categorie diverse, ma sono semplicemente due facce della stessa realtà. Raggiungere la consapevolezza che tutti gli opposti sono polari, e quindi costituiscono un'unità, è considerato nelle tradizioni mistico-spirituali dell'Oriente una delle più alte mete dell'uomo. L'intero insegnamento buddhista - e di tutto il misticismo orientale - ruota attorno a questo punto di vista assoluto che viene raggiunto nel mondo di a-cintya, o "non-pensiero", nel quale l'unità di tutti gli opposti diviene una esperienza viva. Dice una poesia Zen: Al crepuscolo il gallo annunzia l'aurora Poiché tutti gli opposti sono interdipendenti, il loro conflitto non può mai finire con la vittoria totale di uno dei poli, ma sarà sempre una manifestazione dell'azione reciproca tra l'uno e l'altro polo. Una persona virtuosa non è perciò quella che affronta l'impossibile compito di battersi per il bene e di sconfiggere il male, bensì quella che è capace di mantenere un equilibrio dinamico tra il bene e il male. Questa idea di equilibrio dinamico è essenziale per il modo in cui l'unità degli opposti è sperimentata nel misticismo orientale. Non è mai un'identità statica, ma sempre un'interazione dinamica tra due estremi. Nel Taoismo esiste il simbolismo dei poli archetipici yin e yang: all'unità soggiacente allo yin e allo yang viene dato il nome di Tao. Una delle principali polarità della vita è quella tra il lato femminile e quello maschile della natura umana. Nel misticismo orientale si cerca di realizzare un'unità tra questi due aspetti della natura umana. In molte tradizioni orientali, l'equilibrio dinamico tra le modalità di coscienza maschile e femminile è lo scopo principale della meditazione ed è spesso illustrato in opere artistiche. Nel Buddhismo tantrico, la polarità maschio/femmina è spesso illustrata con l'aiuto di simboli sessuali. La saggezza intuitiva è vista come la qualità passiva, femminile, della natura umana, l'amore e la compassione come la qualità attiva, maschile, e l'unione di entrambe nel processo di illuminazione è rappresentata con estatici amplessi sessuali di divinità maschili e femminili. I mistici orientali affermano che si può avere l'esperienza dell'unione della propria mascolinità e della propria femminilità solo quando si è raggiunto un livello superiore di coscienza, nel quale il mondo del pensiero e del linguaggio è trasceso e tutti gli opposti appaiono come un'unità dinamica. Nel misticismo orientale la conoscenza poggia saldamente sull'esperienza e sull'osservazione. Nel Taoismo, questo concetto di osservazione è racchiuso nel nome stesso col quale si indicano i templi taoisti, kuan, il cui significato originario è quello di "osservare". Nel buddhismo Ch'an, la scuola cinese dello Zen, spesso si parla dell'illuminazione come della "visione del Tao", e in tutte le scuole buddhiste il vedere è considerato come il primo passo del conoscere. E' importante ricordare, a tal proposito, anche le parole del mistico yaqui Don Juan, protagonista dei romanzi di Carlos Castaneda: "La mia predilezione è vedere ... perché un uomo di conoscenza può conoscere solo vedendo". L'importanza attribuita al "vedere" va intesa in senso metaforico. Quando i mistici orientali parlano del "vedere", essi si riferiscono a un tipo di percezione che può anche comprendere la percezione visiva, ma che sempre la trascende in maniera sostanziale per divenire un'esperienza non sensoriale della realtà. Ciò che essi vogliono sottolineare quando parlano di vedere, guardare o osservare, è il carattere empirico della loro conoscenza. Nell'Oriente mistico le varie forme dell'arte sono modi di meditazione. Esse sono intese come vie di realizzazione di sé attraverso lo sviluppo della modalità intuitiva della coscienza. La musica indiana non si impara leggendo le note, ma ascoltando l'insegnante che suona; i movimenti del T'ai Chi non vengono imparati seguendo certe istruzioni verbali ma ripetendoli più e più volte in perfetta sincronia con il maestro; le cerimonie giapponesi del tè sono ricche di movimenti lenti e rituali. La calligrafia cinese richiede un movimento spontaneo e sciolto della mano. Nella meditazione profonda, la mente è totalmente attenta e vigile. Tale stato di coscienza è simile allo stato mentale di un guerriero che attende l'attacco con estrema vigilanza. In Giappone, infatti, la forte influenza dello Zen sulla tradizione dei samurai dette origine al bushido, "la via del guerriero", un'arte della spada in cui l'intuito spirituale dello schermidore raggiunge la più alta perfezione. Il T'ai Chi Ch'uan taoista, che fu considerato la massima espressione dell'arte marziale in Cina, fonde i lenti e ritmici movimenti con l'assoluta prontezza della mente del praticante in una specificità unica. I mistici orientali sono perfettamente consapevoli del fatto che tutte le descrizioni verbali della realtà sono imprecise e incomplete. Essi sono interessati principalmente a fare esperienza della realtà e non a descrivere tale esperienza. La ricca immaginazione indiana ha creato un gran numero di divinità maschili e femminili. Tuttavia, chi in India è dotato di intuizione profonda sa che queste divinità sono creazioni e della mente, immagini mitiche che rappresentano i molteplici aspetti della realtà. I mistici cinesi e giapponesi preferiscono spesso accentuare la natura paradossale della realtà ed evidenziare i limiti comunicativi del linguaggio verbale utilizzando il linguaggio fattuale. Perciò i Taoisti si servono frequentemente di paradossi. Dai Taoisti questa tecnica è passata ai buddhisti giapponesi e cinesi che l'hanno ulteriormente sviluppata (con i cosiddetti koan, o "sfide interiori" del buddhismo Zen). In Giappone, esiste anche una forma speciale di poesia estremamente concisa che viene spesso usata dai maestri Zen per puntare direttamente all'essenza assoluta della realtà. Questa forma di poesia spirituale ha raggiunto la perfezione nello haiku, un tipo di componimento poetico classico giapponese di esattamente diciassette sillabe: Le foglie che cadono Alcuni brani del testo sono tratti dal libro I Mistici Musulmani di Marijan Molé (ed. Adelphi, 1992) - traduzione di Giovanna Calasso |
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