Sotto il fico Si narra che il principe Siddhartha Gautama, il Buddha storico, si sia guardato bene dal descrivere l'illuminazione che egli raggiunse mentre sedeva sotto un gigantesco albero di fico a Gaya. Egli, infatti, interrogato sui fondamentali misteri dell'Universo, "mantenne un nobile silenzio". Non si stancò mai di dire che la sua dottrina (Dharma) voleva solo indicare una Via verso l'illuminazione, non annunciare una rivelazione dell'illuminazione stessa. Da ciò nacquero i versi buddhisti: Quando ti interrogano curiosi
L'illuminazione è, quindi, una cosa viva, un'esperienza, che non può mai "esaurirsi" nel linguaggio od essere pienamente espressa da un concetto. Lo scopo e lo spirito di fondo della scuola Zen è sempre stato quello di penetrare oltre le idee e le parole per rispettare questo atteggiamento e questa convinzione originale del
Buddha. Tra storia e leggenda Quando, intorno al primo secolo d.C., il pensiero cinese entrò in contatto con quello indiano attraverso il Buddhismo si ebbero due sviluppi paralleli. Da una parte, la traduzione dei sutra (insegnamenti) buddhisti indusse i pensatori cinesi ad interpretare le indicazioni del Buddha alla luce delle loro filosofie (Taoismo e Confucianesimo). Nacque così uno scambio estremamente fruttuoso di idee che culminò, in Cina, nella scuola Hua-yen e, in Giappone, nella scuola Kegon. Dall'altra parte il lato pragmatico della mentalità cinese rispose all'influsso del Buddhismo indiano privilegiandone gli aspetti pratici. Si sviluppò, così, un tipo particolare di disciplina spirituale che trovò piena espressione nella scuola
Ch'an, termine comunemente tradotto con "meditazione". Intorno al 1200 d.C. questa filosofia venne recepita dal Giappone, e qui, con il nome di Zen, fu coltivata come tradizione viva fino ai giorni nostri. Ma come avvenne lo sviluppo e la diffusione di questa pratica ? La tradizione vuole che 28 patriarchi si trasmisero l'un l'altro l'essenza della visione che il Buddha ebbe a
Gaya, nel V° secolo a.C. La leggenda narra che qesto insegnamento fu trasmesso senza intermediazione di scritture o dottrine: era una trasmissione diretta, che passava in modo immediato da una mente all'altra, comprensibile solo alle persone capaci di far propria l'illuminazione del maestro. Nel frattempo i seguaci del Buddha si dividevano in diverse "scuole" di pensiero, radunate in due gruppi principali: il Mahayana (Grande Veicolo) e l'Hinayana (Piccolo Veicolo) o Theravada (Via degli Anziani). Il contrasto tra i due gruppi nasceva soprattutto da una diversa opinione circa l'autorità da attribuirsi ad un certo corpo di scritture contenente gli insegnamenti del
Buddha. Allo Hinayana aderirono coloro che accettarono soltanto la cosidetta versione Pali di tali scritture, conosciuta come Tipitaka ("I Tre Canestri"). Questa corrente di pensiero divenne una scuola formale e rigida, fedele esclusivamente alle leggi ed ai precetti contenuti nel
Tipitaka. Le scritture sanscrite a cui fa riferimento il Mahayana, invece, erano costituite in prevalenza da discorsi di carattere metafisico che furono continuamente elaborati nel tempo e sottoposti più volte a nuove interpretazioni. Geograficamente
l'Hinayana si diffuse in Asia meridionale (Sri Lanka, Thailandia, Birmania,
Indocina), mentre il Mahayana si espanse in Cina, Tibet, Mongolia, Corea e Giappone, suddividendosi in molte "scuole" diverse, come, per esempio, il Lamaismo tibetano, altamente magico e ritualistico, e, appunto, lo Zen giapponese, semplice e genuino. Il Saggio scalzo Storicamente la pratica Ch'an fu introdotta in Cina nel 527 d.C. dal monaco indiano buddista Bodhidharma. Egli fu sempre dipinto dagli artisti cinesi e giapponesi come un vecchio fiero, con una lunga barba e grandi occhi dallo sguardo penetrante. Si sa poco di lui e del suo lavoro, e pare che egli non abbia portato in Cina nessun messaggio o insegnamento specifico. Esercitò un influsso non per quello che disse, ma grazie a ciò che fu. Narra una storia che Bodhidharma fu condotto in presenza dell'Imperatore Wu, che era ansioso di vedere questo grande saggio e di avere da lui qualche apprezzamento per le opere svolte. Chiese a Bodhidharma: "Abbiamo costruito templi, copiato scritture sacre, Shang Kwang, suo successore spirituale, dovette aspettare una settimana intera fuori dalla grotta in cui Bodhidharma sedeva in meditazione, prima di essere ammesso. Nevicò tutto il tempo, ma Shang Kwang era così deciso a voler scoprire il segreto del maestro che sopportò i morsi del gelo pur di imparare da lui. Infine fu ammesso, ma Bodhidharma non diede alcuna spiegazione. Tutto quello che fece fu di proporgli un enigma che aprì gli occhi del discepolo alla verità. Shang Kwang disse: "Non ho la pace della mente. Ti prego rasserena la mia mente" Poco dopo la morte di Bodhidharma qualcuno riferì che egli era stato visto tra le montagne. Tornava verso l'India, camminando a piedi scalzi, con una scarpa in mano ...
L'epoca della fioritura Da allora qualcosa cominciò ad ispirare scrittori, artisti, soldati e uomini di stato, qualcosa che influenzò profondamente la cultura cinese e giapponese. Bodhidharma aveva trovato una saggezza che poteva essere trasmessa soltanto a qualcuno pronto a riceverla, una saggezza che non poteva essere racchiusa in una formula intellettuale. Dopo la sua morte seguirono cinque Patriarchi, l'ultimo dei quali fu Hui Neng. A partire da lui lo Zen perse ogni carattere indiano, lasciandosi trasformare totalmente dalla più pratica mentalità cinese, che spazzò via ogni residua traccia di intellettualismo. Il suo originale contributo allo Zen fu l'introduzione del metodo della conprensione improvvisa, anzichè graduale. Mentre, infatti, taluni ritenevano necessario giungere gradualmente alla comprensione del Buddhismo, attraverso uno studio paziente, Hui Neng capì che questo metodo poteva condurre facilmente all'intellettualismo, illusorio e inconcludente. Secondo lui, invece, il discepolo zen doveva imparare a cogliere, senza indugio, la verità immediata, prima che fluisse via. Poco prima di morire egli annunciò che l'usanza di designare un Patriarca sarebbe stata sospesa e citò, per questo, una poesia di Bodhidharma: Lo scopo della mia venuta in Cina Questo fu davvero ciò cha accadde perchè, dopo la morte di Hui Neng, durante il regno delle dinastie Sung e Yuan (731-1367 d.C.), l'alto livello raggiunto dall'insegnamento e dalla pratica zen coincisero con l'età aurea della civiltà cinese. Tutti i grandi maestri zen vissero in questi secoli. Hui Neng fu l'ultimo a dare allo Zen una spiegazione filosofica e concettuale (nel Sutra del Sesto Patriarca), in quanto, dopo di lui, tutti i discorsi dei maestri zen furono di gran lunga più elusivi e paradossali. Nei secoli successivi il Ch'an e, di conseguenza, lo Zen vennero sempre più in contatto con l'insegnamento taoista, tanto che nei detti dei maestri zen la parola Tao (la "Via", il Tutto infinito che scorre) è spesso usata come sinonimo di natura-Buddha (autentica "coscienza" universale) e di Dharma (Legge). In questo periodo lo Zen godeva di una vasta popolarità in tutte le classi sociali, mettendo a frutto ciò che c'era di meglio nel Taoismo, nel Buddismo Mahayana e nello spirito confuciano. Lo Zen, infatti, fondeva l'idealismo, l'imperturbabile serenità del Buddismo con la poetica fluidità del Taoismo e la solida disciplina del Confucianesimo. Verso la fine della dinastia Sung (1279) cominciò a prendere vita un'altra forma di Buddismo. Era il culto di Amitabha (in giapponese Amida), il grande Buddha della "Luce Infinita", che aveva promesso di salvare tutte le creature e di condurle al Nirvana. Coloro che avessero confidato nella misericordia di Amitabha sarebbero rinati nella "Terra Pura" (Sukhavati). Nel periodo di decadenza della civiltà cinese il Ch'an (o Zen) si diffuse rapidamente anche in Giappone (1191 d.C.). Qui divenne, tra l'altro, la religione dei Samurai, la classe guerriera, ed ebbe sulla cultura di quel paese un effetto più profondo che in Cina. In quest'ultimo secolo lo Zen ha cominciato a diffondersi anche in Occidente, uscendo dal ristretto ambito culturale dell'estremo Oriente. La scuola di Shaolin I monaci del monastero di Shaolin, in Cina, furono i fondatori e gli inventori del kung-fu, arte marziale che è sempre stata alla base del loro culto. Secondo la leggenda il tempio di Shaolin fu fondato nel 479
d.C., ma il momento più importante della sua storia coinciderebbe proprio con l'arrivo, nel 540, di Bodhidharma (conosciuto anche con il nome di Tamo). In questo luogo Tamo insegnò ai monaci, prima dediti prevalentemente ad attività intellettuali, gli esercizi fisici necessari alle pratiche di meditazione provenienti dallo Yoga. Questi esercizi di fortificazione del corpo erano necessari per meditare e difendersi (soprattutto dalle incursioni di ladri e briganti al monastero). Questa pratica si fondava su 18 movimenti di base, modellati sui movimenti dei 18 animali principali dell'iconografia indiana e cinese, tra i quali la tigre, il cervo, il leopardo, il cobra e il drago. Da questi movimenti di base ebbe origine il
kung-fu, filosofia ed arte marziale che univa in modo originale ed applicava concretamente gli insegnamenti fondamentali del buddismo e del taoismo. Questi monaci-guerrieri si dedicarono a questi esercizi per secoli, costruendo e perpetuando una scuola protesa a sviluppare queste tecniche di meditazione ed autodifesa. Col tempo sorsero e crebbero, in Cina, altri templi
shaolin. Nel 1901, la rivolta dei boxer (patrioti cinesi che si opponevano all'infiltrazione culturale europea e giapponese nel paese) segnò l'inizio della decadenza della scuola. Tra essi, infatti, c'erano molti praticanti
shaolin, che vennero ulteriormente perseguitati dal successivo regime comunista. Nel 1920 quasi tutti i templi shaolin furono distrutti e molti dei monaci sopravvissuti andarono in esilio, portando quest'arte marziale alla notorietà mondiale. Un'esperienza di vita Zen è dunque una parola giapponese, derivata dal vocabolo cinese Ch'an che è, a sua volta, trascrizione del sanscrito Dhyana, che significa "meditazione". Con questo termine, in Oriente, si intende una pratica protesa al raggiungimento di uno stato di coscienza superiore in cui l'uomo giunge a fondersi con la Realtà suprema dell'Universo. Nell'esperienza Zen (giapponese) e Ch'an (cinese), tuttavia, questa unione (illuminazione) si realizza attraverso il lavoro quotidiano, nella vita normale di tutti i giorni, anzichè attraverso l'isolamento solitario in un luogo appartato (come avviene generalmente nella pratica induista). Ciò accade perchè lo Zen è il frutto singolare di una mescolanza originale delle filosofie e delle specificità di tre culture differenti. E' un modo di vivere tipicamente giapponese che riflette il misticismo indiano e la ricerca buddhista dell'armonia, l'amore del Taoismo per la naturalezza, la spontaneità e l'immediatezza, il profondo pragmatismo della mentalità confuciana. Nella sua essenza, sotto l'aspetto dottrinale e filosofico, lo Zen è fondamentalmente buddista, in quanto il suo scopo è quello del Buddha stesso, ovvero raggiungere l'illuminazione, esperienza che nello Zen è chiamata Satori. Il risveglio del Buddha e il suo insegnamento secondo il quale tutti hanno la possibilità di raggiungere tale risveglio rappresenta lo scopo esclusivo dello Zen. Esso è, quindi, "esperienza del satori", e poichè tale esperienza trascende tutte le categorie del pensiero, lo Zen non è interessato ad alcuna astrazione o concettualizzazione. Non ha una dottrina o una filosofia specifica, non ha dogmi nè credi o fedi formali, e afferma che solo questa libertà da ogni credenza rigidamente definita può renderlo autenticamente spirituale. Più di qualsiasi altra forma di misticismo lo Zen è convinto che le parole e il linguaggio non possono mai esprimere la verità ultima. Esso ha ereditato questa convinzione dal Taoismo: "Uno che risponde a chi lo interroga sul Tao", diceva il maestro taoista
Chuang-tzu, L'esperienza e l'insegnamento Zen, infatti, possono essere trasmessi solo direttamente dal maestro all'allievo, seguendo dei metodi particolari. La conoscenza acquisita dal discepolo, infatti, resta sostanzialmente ineffabile e incomunicabile a parole. Questa comunicazione privilegiata che si instaura tra maestro e allievo è quindi: Una trasmissione speciale al di fuori delle scritture Questa tecnica del "puntare direttamente" costituisce una peculiarità importante dello Zen. A tal fine i maestri Zen non indulgevano alla verbosità ed evitavano qualsiasi teorizzazione o speculazione. Essi elaborarono dei metodi che si indirizzavano direttamente alla verità, trtamite azioni spontanee o parole improvvise che evidenziavano i paradossi e le contraddizioni insiti nel pensiero concettuale. Attraverso, per esempio, i Koan, enigmi proposti al discepolo che rappresentavano delle vere e proprie "sfide interiori" che egli doveva risolvere, si intendeva bloccare il processo del pensiero razionale, per sua natura incline ad astrarre ed a "categorizzare" la realtà, rendendo l'allievo pronto per l'esperienza mistica. Anche il grande rilievo che lo Zen dà alla naturalezza ed alla spontaneità ne rivela in modo chiaro l'impronta taoista, anche se, alla base, c'è pur sempre un elemento buddhista, cioè la convinzione che la nostra natura originaria sia perfetta e che il processo d'illuminazione consista semplicemente in un risveglio dal nostro stato di "sonnambulismo", al fine di ritornare ad essere ciò che eravamo fin dall'inizio, riscoprendo la nostra natura-Buddha. Un'altro aspetto caratteristico dello Zen è che, in esso, l'illuminazione non si raggiunge attraverso il ritiro e l'isolamento dal mondo, ma attraverso la partecipazione attiva e concreta alle attività quotidiane. Questo atteggiamento era, in origine, in perfetta armonia con la mentalità cinese di matrice confuciana, che attribuiva grande importanza alla vita pratica e produttiva, alla sua organizzazione e alle sue regole, e che, di conseguenza, non poteva accettare il carattere puramente ascetico di altre forme di buddhismo. I maestri cinesi misero sempre in risalto il fatto che il Ch'an (o Zen) è "l'esperienza quotidiana". Essi affermarono che il risveglio doveva avvenire durante le attività manuali della vita quotidiana, anzi sottolinearono che quest'ultima non era per loro la via verso l'illuminazione, ma l'illuminazione stessa. Il Satori, infatti, coincide con un'esperienza immediata della natura-Buddha di tutte le cose, a partire dagli oggetti e dalle creature viventi che fanno parte della vita quotidiana. In tal modo lo Zen è profondamente mistico nonostante si soffermi sugli aspetti pratici della vita. Vivendo interamente nel presente e prestando piena attenzione alla vita quotidiana, chi ha raggiunto il satori sente il prodigio e il mistero della vita in ogni singolo e semplice atto: Com' è mirabile ciò, com' è misterioso ! Una realtà meravigliosa La perfezione Zen consiste dunque nel vivere la propria vita quotidiana in modo naturale e spontaneo. Sebbene questa affermazione suoni come ovvia e banale, si tratta in effetti di un compito veramente difficile da raggiungere. Riacquistare la spontaneità della propria natura originaria è un difficile esercizio che richiede un lunga applicazione, una rigida disciplina e che rappresenta una grande conquista spirituale. Questo bisogno di naturalezza e spontaneità si evidenzia anche nell'atteggiamento umoristico che spesso caratterizza la pratica Zen. Questo aspetto umoristico e "leggero" mette in rilievo una delle sue importanti affinità con il Taoismo. Forse il segreto dell'umorismo zen e taoista sta nel fatto che nè l'uno nè l'altro prendono molto sul serio il mondo dell'oggettività, facendosi beffe dell'intelletto e di ogni forma di convenzione e di pomposità. Il particolare tratto umoristico dello Zen si trova raffigurato in molti dei ritratti che i maestri si facevano fare. Raramente si osservano personaggi solenni. Il più delle volte si tratta di caricature vivaci e colorate. Spesso i maestri Zen, parlando l'uno dell'altro, si chiamavano vicendevolmente con divertenti epiteti, come "vecchio sacco di riso". Questo accadeva perché li divertiva pensare di essere considerati come straordinariamente santi, mentre essi stessi erano consapevoli che ogni cosa è santa e che, quindi, in loro non vi era nulla di particolarmente venerabile. D'altronde i maestri Zen erano capaci di trovare infinita meraviglia e assoluto divertimento nelle cose più comuni: forse ridevano al pensiero che nei piccoli e bizzarri eventi della creazione s'incarna, non meno che nelle creature viventi, la sublime natura-Buddha.
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